top of page
ahida_background.png

selfie da zemrude

Immagine del redattore: Andrea WöhrAndrea Wöhr

nuovi calendari Questo è il titolo all’interno del comparto per selfie da zemrude


La terza divinità veneziana del Giovane Cinema Italiano è anche la più sciagurata. A Venezia, si dice, la gente sghignazzava apertamente durante la proiezione, mentre i critici di regime tessevano le lodi del film con qualche piccola riserva, com’è di prammatica con un giovane. La caduta degli angeli ribelli di Marco Tullio Giordana è una risciacquatura ignobile dei polpettoni politico-esistenziali alla Bertolucci, molto peggiore di quanto il maestro non abbia neppure mai osato pensare. Eppure i critici non si sono scomposti e hanno fatto a gara a scoprire meriti e significati nascosti. Per fortuna il pubblico gli ha riservato l’accoglienza che meritava. Ma il buongiorno si vede dal mattino. Se La caduta degli angeli ribelli è orrendo, non migliore è «Maledetti vi amerò» (1980), esordio cinematografico di Giordana. Sui «Cahiers du Cinéma» Bergala lo ha definito «un sottoprodotto bastardo e scandaloso del cinema politico e della commedia all’italiana». E ha chiuso subito il discorso. Ma se si guarda attentamente ci si accorge che il giudizio di Bergala pecca di generosità. Il film, infatti, non è solo penoso, con dialoghi infelici, una storia che non sta in piedi e nessuna idea formale. È anche una rozza accozzaglia di luoghi comuni: neanche uno sceneggiato televisivo con dibattito finale sul riflusso potrebbe risultare peggiore. Nella galleria emblematica che Giordana costruisce ci sono proprio tutte le maschere del repertorio politico post-sessantotto: l’ex partigiano che sentenzia, gli ex sessantottini che si sono integrati (uno gioca in Borsa, l’altro fa l’antiquario) o se ne vanno in India, il sottoproletario picchiato dai «compagni» perché spaccia, la festa del Decennale dell’Associazione Combattenti e Reduci, le due morti emblematiche (?) di Pasolini e di Moro, un falso attentato e un commissario moraralizzatore. Manca solo Pulcinella. E lo stile, si fa per dire, oscilla tra il grottesco involontario dell’incubo e le ordinarie ricostruzioni d’ambiente; le riprese sono approssimative con le luci sbagliate e la recitazione, in cui è coinvolto anche il povero Bucci, è da dopolavoro. Così che, se il filmetto alla fine deve essere sintomatico di qualcosa, non lo è certamente della crisi del mito politico, ma soltanto dei guasti mentali, dell’ignoranza e dello sbandamento intellettuale di tanti che hanno fatto, male, il ’68 e ne sono usciti anche peggio. La caduta degli angeli ribelli (1981), tuttavia, è più brutto del primo film, perché non ha più le incertezze dell’esordiente, ma soltanto le sciocchezze dell’artista mancato, del testimone cieco. All wash, risciacquatura di piatti, dicono. Si comincia subito bene. Brandelli del dialogo tra padre (malato) e figlia (Cecilia) in mezzo al parco della loro villa sul lago. Due boscaioli stanno tagliando gli alberi. Il padre: «Vedi com’è saggio il rapporto dell’uomo con la natura? Quando un albero è malato lo tagliano». E la figlia annuisce. Si capisce subito perché è suonata: è venuta su con massime di quel tipo. Ma il dialogo continua. Il marito è definito «inestinguibile come il prezzemolo». La battuta viene più o meno da Campanini, che per Giordana è una fonte più che dignitosa: la sua comicità, almeno, era intenzionale (Campanini si definiva «il prezzemolo del teatro italiano», perché andava bene dappertutto). Ma il tocco inconfondibile di Giordana è in quell’accostamento: inestinguibile e prezzemolo. Nulla di peggio. Avrebbe potuto essere volgare, letterario, ardito, meditativo... Ma no, gli è venuto soltanto quello. Di inestinguibile al mondo c’è soltanto il prezzemolo. Poi il vecchio racconta una storiella su un parroco che con il film non c’entra proprio niente. Dicono che sia solito raccontarla l’attore al bar, quando non sa che cosa dire. Come nel film. (Ecco, Giordana non sa come far procedere il dialogo, poi ricorda la storiella che l’altro gli aveva raccontato la sera prima: un’idea della funzionalità testuale da manuale strutturalista). Finisce lo sproloquio. Breve pausa. Poi, con lo stesso tono: «Cecilia, saresti capace di uccidermi?». Altro choc. La ragazza è sempre più suonata. Infatti, tornandosene a casa in autostrada, si ferma in una piazzuola e si mette a piangere. Arriva un bel ragazzo, capello corto come si usa oggi, e ciuffo sulla fronte, giubbotto di pelle, approccio sicuro. È un teppista? Vorrà violentarla? No. È gentile? Vuole solo baciarla. È un dragueur? No. Sta-Cercando-Se-Stesso. È un giovane d’oggi che ha vissuto tutto. Cinico, ma con un fondo umano. Ecco: il Terrorista-Della-Porta-Accanto. Bene. Si baciano. Cecilia torna a casa. Parla con la figlia, che la vecchia governante (una incredibile Alida Valli: ma non si rifiutano più i film?) non riesce più a tenere (gestire, direbbe Giordana). Dialogo tra la madre e la figlia: «La nonna ti faceva mai pelino?» (Anche i bambini nel film sono imbecilli: la figlia dimostra almeno otto anni e parla come se ne avesse quattro). «No. La nonna non mi faceva mai pelino. Mi dava solo la buo-nanotte». E giù un’espressione di tristezza. Carenza di affetto, Rapporto-Insoddisfacente con i Genitori ecc. La Psicanalisi-non-mente. Chissà cosa le avrà fatto quella madre terribile? È comparso il marito. Il pubblico (appassionato) si chiede: che cosa farà nella vita? Pronta scheda informativa di Cecilia: «Quando eri assistente di filosofia morale all’Università...» (e dove avrebbe potuto essere assistente di filosofia morale?). Cecilia accompagna il marito all’aeroporto. Domanda: chissà perché ci fanno vedere anche questa scena? Bisogna avere fiducia. Una ragione c’è. Lo si capirà alla fine. I due si abbracciano in controluce. Due ombre contro il cielo. È poetico. Skiàs ónar ànthropoi. Avanti. Cecilia è in un palco all’opera. Sta ricordando. Risciacquature. Torna a casa. Il giovane dell’autostrada (si chiama Vittorio) la sta aspettando. Lei vorrebbe sfuggire, ma cede. Lungo bacio. «Ma che ti credevi?» dice lui, e se ne va nella notte. Che ti credevi cosa? E invece cosa? È puro Moretti. Ma Moretti lo fa per ridere. Torna il marito. Bacetti e silenzi. Silenzi e bacetti. Qualcosa non va tra quei due, lo capirebbe chiunque. Lei si toglie gli orecchini e li posa in un portacenere. Primo piano degli orecchini nel portacenere. Poi primo piano di una fotografia, mentre lui dice «Dolcemente... dolcemente...». Stacco. Altro sproloquio, questa volta della governante Alida Valli. Bisognerebbe riportare tutto il testo. Basti una chicca (cito a memoria): «Bisogna fottersene del disprezzo degli altri. Abbiamo bisogno anche di quello. Anche l’argenteria si lucida con lo sputo». Come il prezzemolo. Ora Vittorio e Cecilia si baciano. Sono in macchina sotto una pioggia così forte che... ebbene sì: sono in un lavaggio automatico. Di nuovo ombre scure sullo sfondo. Abbiamo capito. Interno giorno. Appartamento disabitato con un arredamento sommario. Lunghi approcci sessuali dei due. Silenzi. È un film di lunghi silenzi. I dialoghi sono brevi e scarsi. Ma terrificanti. Spaccato di vita coniugale. Marito e moglie: «Evitiamo le inutili polemiche». «E allora controlla i giochi di parole. Non li sopporto». Stacco. Lunga carrellata in avanti sino alla cartella della bimba. Chissà perché? Stacco. In auto Cecilia e Vittorio: «Mi piace la misoginia negli uomini». Sublime. Come i movimenti di macchina che si sprecano con una insistenza indecente: enfatizzati, sbracati, invadenti, che cercano di riempire di fumo l’inerzia del materiale, la futilità delle scene. Altro che i movimenti di macchina di Jancsó ne L’armata a cavallo e in Scirocco d’inverno o di Resnais ne L’anno scorso a Marienbad. Là la macchina da presa scopriva progressivamente lo spazio, costruendo la realtà filmica per agglutinazione e rivelando apertamente, anche nella linearità risolta della narrazione, il carattere fittizio del cinema. Qui la macchina da presa svacca liberamente perché è totalmente acefala. In confronto la grammatica elementare di Moretti è rigore. Intanto Cecilia non è andata a trovare il padre malato per incontrarsi con Vittorio. Torna a casa e ovviamente racconta una bugia. Scorno tremendo. Il diavolo fa le pentole ma non i coperchi. Il padre è morto proprio nel pomeriggio. Cecilia è sconvolta. Cadono, come investite da una bufera, le fotografie ben disposte su un tavolino. Primo piano di Cecilia che piange con i capelli adeguatamente mossi. Foto di «Vogue». Vetro rotto. Cecilia si sveglia. Era il solito incubo notturno. Si alza. Va nella camera della bambina, illuminata e vuota. Quella bambina non dorme mai. I giocattoli a carica stanno girando in tondo. La bambina è in braccio alla governante. Meno male. Stacco. Tema: i tormenti e le riflessioni sull’io. Un’amica a Cecilia: «Devi sapere se parti alla ricerca di qualcosa o se scappi da qualcosa». Cecilia scrive al marito: «Ciò che sto scoprendo di me stessa non deve avere testimoni». Basta. Dateci Françoise Sagan. Flash-back: il padre sta di nuovo sproloquiando: racconta alla figlia una storia di mandarini e di cortigiane. Educativo. Stacco. «Questa è la nostra reggia», dice il bel tenebroso e indica un alloggio vuoto con un ripostiglio sporco. La macchina da presa gira come impazzita a scoprire lo spazio. Musica di accompagnamento. Enfasi su enfasi. E siamo a Napoli. Il film cambia. Diventa un documentario turistico per finlandesi. Il colore si spreca. Il cameriere sembra uscito da una plaquette pubblicitaria, in trattoria si beccano subito una tammurriata, ci sono la drogata lesbica e prostituta, i travestiti, il morto con i polpastrelli bruciati, la sporcizia e i problemi di Napoli. Ma Giordana non rinuncia ai carrelli. Oltre alle panoramiche di prammatica della città e del golfo c’è un lunghissimo carrello in avanti su un molo deserto che arriva fino a una cabina telefonica, piazzata li nel posto più insensato dell’universo. Potenza dell’immaginazione. Ma è venuto il momento della resa dei conti. Verbale, naturalmente. Hanno fatto da poco l’amore. Lui con i pantaloni bene infilati, chissà perché? Ed ecco il culmine filosofico del film: «Ma noi due perché siamo qui?». «Ma noi due chi siamo?». «Tu sei Vittorio e io sono Cecilia», risponde lei fantasiosa. Allora si va a Palermo, dove, guarda caso, insegna l’inestinguibile come il prezzemolo in persona. E se Dio vuole finisce lì. Cecilia in una colluttazione uccide Vittorio poi lancia la pistola contro lo schermo. Contro il pubblico o contro il regista (come suggerisce Filippini)? Il vetro si rompe di nuovo. Significati profondi. E il terrorismo? Non si vede. Solo fugaci apparizioni di un amico-nemico di Vittorio che il bel tenebroso fa secco per legittima difesa davanti agli occhi stupefatti di Clio Goldsmith. Perché scomodare De Palma per parlare di film spazzatura? Giordana è peggio di Alvaro Vitali. 


● Tratto da: Il più brutto del mondo. Il cinema italiano oggi, di Paolo Bertetto, Bompiani, 1982.

Newsletter settimanale!

© 2025 by Ahida.Online. Powered and secured by Ahida

bottom of page